Che buongiorno quel 16 marzo 1976, a mollo nel fiume Nestore, con ai bordi tanta neve e nonostante la temperatura raggelante gli ormoni alle stelle!

(L’anno, sì, è quello indicato nel racconto, 1976, lo sfondo però non è certo dato dalla cornice del fiume Nestore, Mercatello di Marsciano, Perugia, se non dalla spiaggia di Campese, Isola del Giglio, Toscana, con lo scoglio di Mezzo Franco a vegliare uno degli ingressi della baia.

All’insegna, comunque, della più assoluta modestia, virtù, che rimanga inter nos, delle mezzeseghe, per dire e mostrare ciò che ambiva la figlia del collega, non nudo, senza mutande, come nel frangente che leggerete di seguito, ma in costume).

Ore 04,30 del 16 marzo 1976, è nevicato, fa freddo e il tempo stringe.

Alle 08,00 in punto, infatti, dovrò stare in ufficio con Valentini e Minciotti, due, scontati, geometri, nonché col piagnone De Felice, di essi omologo, del furbastro, ex seminarista di Ripa, ingegner Ferrucci, e, ahimè, dell’odiosissimo tabagista incallito, ingegner Frenguelli

(oh, a detta pure del di lui simpaticissimo padre, vigile del fuoco a riposo, presidente della Società del Gotto, Via E. dal Pozzo, ritrovo certificato degli sbevazzatori di Porta Pesa e dintorni), in Via M.Fanti, Perugia, dove mi attendono delle carte topografiche su lucido, sulle quali tracciare le condotte dell’acqua potabile che, come altrettante ragnatele, avviluppano il sottosuolo del capoluogo di regione.

(L’amico cacciatore, nonché collega, Franco Lillacci, indicato da una punta azzurra, ed io in primo piano con un sorriso smagliante).

Dal modesto appartamentino di Via Ada, Madonna Alta, refugium peccatorum, improvvidamente scovatomi da babbo Gennaro, al fine di cercare di porre una pezza ad un rapporto matrimoniale, che mai era stato tale, salgo in auto e svolto di filata per Via Settevalli.

Nulla circolazione e al posto dell’attuale concessionaria auto Renault, più o meno all’altezza dell’incombente Via(le) dell’Acacia, resisteva ancora un contadino, sotto la cui casa scorreva placido il Fosso degli Ortolani, incredibile a dirsi, per gli odierni bamboccioni tutti tablet e smartphone, rotoli di pancetta sprofondati su divani, dove si aggiravano Gallinelle d’acqua, Beccaccini, più tanto altro e sul cui limpido alveo non era impossibile distinguere Granchi e Gamberi.

Con l’illuminata amministrazione socialcomunista dell’epoca in un batter d’occhi fosso, campagna e casa colonica vennero sommersi da una colata continua di cemento, facendo piazza pulita di ogni essenza vegetale autoctona, per non parlare della fauna selvatica.

Pigio sull’acceleratore e in breve sono a Pila, cinquant’anni fa quattro case attorno alla Chiesa e sull’incrocio, quadrivio, dal quale si svolta per Castel del Piano o per San Martino in Colle oppure si prosegue diritto per i saliscendi, che conducono a Badiola, Spina, quindi Mercatello, insomma dal comune di Perugia a quello di Marsciano.

Scelta che io senza indugio pratico, tentennando un pelino alla deviazione per Villanova, sovraeccitato, perché la fantasia corre al galoppo al pensiero del profumo di una fresca conoscenza, donzella del posto.

Va’ be’, l’ho già raccontato, lasciamo stare.

Arrivato che fui, dunque, al ponte sul Nestore, poco prima del paese di Mercatello, parcheggio sul lato destro della strada, accostando lo sportello, senza provocare il minimo rumore.

Una brezza tagliente mi pizzica i polmoni, provocandomi uno sforzo per non tossire.

Sfilo la doppietta dalla custodia e mi avvio sull’argine del fiume.

(Sempre nel 1976, se non ricordo male, con Elisabetta, la mia primogenita, la quale mi illuse che avrebbe calcato le mie orme, con Bacco al guinzaglio, un formidabile mascalzone, che, finché attive mamma, sorella e Derna, in souplesse e pressoché in surplace, attendeva che scovassero esse l’Orecchiona, salvo poi metterle sale sulla coda in un folle inseguimento, durante ore).

Conosco a memoria il terreno.

Sono da solo.

A parte qualche raro locale, che abitava esattamente a ridosso del corso d’acqua, nemmeno una pulce a fastidiarmi nei giorni di lavoro.

Mi muovo a passi felpati, ma nonostante sia molto accorto, ogni tanto un crack sul terreno gelato mi induce a bloccare la marcia e a pormi in allerta, per cercare di scorgere o almeno di tentare di percepire il caratteristico frusciare delle ali dei Germani Reali in volo, dei quali sono a caccia.

Sono pratico del luogo e non mi sfugge alcuna buttata o luoghi di pastura, dove le papere vengono a rimpinzarsi di erbe, molluschi e quant’altro trovino di loro appetito.

Ore 05,30, immobile come una statua mi godo i rumori del fiume e mi chiedo di quanto privilegio goda una qualsiasi persona come me nel ricevere il dono di tutto ciò che mi attornia.

Ad iniziare dal paesaggio lunare, viepiù impreziosito dalla neve che copre parzialmente gli argini, dal giuoco delle ombre in movimento scaturente dall’impetuoso, crescente, oscillar dei rami degli alberi battuti dal vento, dal muggito di un Tarabuso, può essere (le Nutrie erano ben al di là dal venire), dal ripetitivo, quanto ossessivo verso del Cannareccione (da me ribattezzato segone), dal concerto aggiuntivo di ogni altro, pennuto, condomino di quella porzione di paradiso in terra, secondo la mia opinione.

Adesso lo dico soltanto per quei milioni di esseri viventi, che neppure sanno dove appoggiano le estremità, allorché provino a camminare in aperta campagna, c’è un unico momento, al mattino e alla sera, nel quale transitano gli anatidi.

Al combrunare, all’Ave Maria, e al mattino, quando tuttavia non si distinguono bene le silhouette, ma ….!

C’eravamo: un fffffffffffff, quasi un soffiare insistente, mi sorvola.

D’istinto parte un colpo.

Contro il chiarore dell’alba una sagoma si avvolge su se stessa e tocca la superficie del fiume con un tonfo esagerato.

Uno schiaffone, quasi, dato da un’invisibile mano a pelo d’acqua.

Un allarmatissimo e spaventato macmacmacmac mi sta comunicando che è stato il maschio della coppia a pagare dazio.

Suffragato, ce ne fosse stato bisogno, da due o tre volte sul punto dell’abbattimento e da un ultimo macmacmacmac d’addio al compagno oramai perduto.

Medito sul fatto che sia troppo presto per fantasticare sul menù a base di anatra all’arancia, perché giù in basso, sulle torbide acque, la visibilità è prossima allo zero.

La corrente non è da fiume in piena, ma pur sempre impetuosa.

Turbato all’idea che la preda sia sparita, irrimediabilmente perduta, trascinata chissà dove, inizio a correre fino ad una sorta di sbarramento formato dai tronchi portati da un precedente evento piovoso, ma non vi scorgo nulla di simile al mio Paperoga.

Irritato non poco, torno al punto di partenza, cercando invano di acquietarmi.

Dove cxxxo sarà finito?!?!“,

rimugino fra me e me, allorché un altro fantasma mi sorvola.

Stesso copione, stessa scena, ma stavolta lo vedo sin troppo bene dove si sia arrestato, imbrigliato nei rami di un Salice piangente.

C’e’ solo un non trascurabile intermezzo tra me e Paperoga: 10 metri d’acqua gelata corrente.

Impreco rabbiosamente sull’aver lasciato a casa Diana, la Breton formato involtino, ma dalla ferma e recuperi impossibili, i-n-s-u-p-e-r-a-b-i-l-e compagna di mille avventure.

Ma è troppo tardi per recriminare e l’ora d’entrata in ufficio s’approssima.

Festina, lente, perché inorridivo al solo pensiero, mi tolgo gli stivali ed inizio a denudarmi.

Giunto alle mutande che sono, mi guardo attorno: anima viva circolante, e all’aria anche quelle.

Un: “Aaaaaaaaaaaaaaaaah“, mi sgorga spontaneo non appena i “gioielli di famiglia e il loro inseparabile vigilante”, vengono sommersi in quelle scure e ghiacciate acque.

Attento a non scivolare sul fondo sdrucciolevole, attaccandomi ai rami, guadagno non senza qualche patema d’animo il mio, secondo, Paperoga e, felicità massima, vi scorgo a pochi metri il primo dei miei Paperoga.

Chiappe e attributi irrintracciabili, serrati da baffi di ghiaccio, saltellando come un grillo, mi rivesto in un amen, frizionandomi violentemente i piedi, prima di rimettermi i calzettoni e di rinfilarmi gli stivali.

Mi impongo di non beccarmi una polmonite, immaginandomi già sotto una doccia bollente.

Fatto che puntualmente avviene, appena rientrato a casa.

(Squadra di calcio della C.R.E.A., campo sportivo di Colombella, dove Minciotti venne massacrato all’emipiatto tibiale destro esterno da Passeri, rustico genero del fontaniere di Civitella Bennazzone, Panfili, un tarchiato Caterpillar, io accovacciato, con una mano sulla spalla del geometra Arena, e alla mia sinistra, il portierino Luciano Comodini, una delle persone più care conosciute nell’arco della mia vita, morto di tumore allo stomaco nel 1993, a soli 42 anni d’età).

A tempo di record sono di nuovo a bordo della mia utilitaria, trovando persino il tempo di passare ad informare della scena di caccia vissuta un amico cacciatore, nonché operaio della nostra impresa, C.R.E.A. (Costruzione, riordino, esercizio, acquedotti), Franco Lillacci, un buon nembrotte, bravissima persona.

E lì, davanti a casa sua, poco sotto Prepo, la conferma di quanto pensassi, ma non osassi autocertificarmelo, da parte di una delle sue, due, figlie, cui non ero precisamente indifferente, nell’ascoltare il resoconto, svestizione e vestizione incluse, seminascosta sull’uscio d’ingresso, intentissima ad uccellare quanto dicessi, acquosi occhietti celesti malcelanti una sana, prorompente, adolescenziale, libidine, che se ne esce con uno squittente:

Ma tu se’ tutto scemo!!!!

Forse sì, anche no: chissà?!?!

Di certo non comune, senza meno un po’ originale e gravemente colpevole di non averci provato anche con lei, che non aspettava altro.

Eeeeeeeeeeeeh, ingiustificabili scrupoli imputabili ad un forte senso dell’amicizia, soprattutto di un ventiduenne, ancora non convinto che i cacciatori fossero le cacciatrici, altro che noi, poveri illusi, mannaggina, ina, ina!

Leandro Raggiotti

Emiliano Zapata , Morelos, México

28 febbraio 2024