No, io non sto cogli agricoltori, meno cogli allevatori!

Terza domenica di agosto 1965, Apertura della Stagione Venatoria, Strada Cappuccinelli, Perugia, a due passi in linea d’aria dal di là da venire Stadio Curi, ai piedi di Monte Malbe, podere Mancini (orribile personaggio, il vecchio, che pagava 100 lire a bestemmia ad uno scatenato moccioso, classe 1957, 08 febbraio, Claudio), accompagnati da Luciano Americani, mezzadro, figlio di Angelino (rispettivamente genitore e nonno del piccolo blasfemo), eccentrici personaggi tutti e tre, famiglia conosciuta come ‘l Sisano, io tuttavia un ragazzino lungo come una pertica, secco come un uscio, alle prime luci dell’alba, in un tortuoso sentiero che scende tra gradoni incorniciati di severi, maestosi, ulivi, seguo babbo Gennaro, suo fratello maggiore Mario, Nello Gaggiotti, cugino dei due, sino alla base del piccolo rilievo su cui sorgeva la decrepita casa colonica, priva di acqua corrente, di luce elettrica, di servizi igienici, e dove si cagava accucciati, dopo essersi provvisti di pietruzze lisce o falasco per pulirsi, in equilibrio su una tavola di legno, al cui centro era stato ricavato un foro, da centrarsi per forza, pena smerdarsi le caviglie e riempirsi di piscio le scarpe, nonché attenti a non precipitare nella sottostante concimaia, in attesa che le ombre della notte si dissolvessero del tutto, e che le zolle del maggese lavorato a forza di braccia e vomero trainato da baldanzose vacche risaltassero nelle loro forme.

(Foto del 1969, quattro anni dopo gli avvenimenti narrati, con Diana, a sinistra, Dana, al centro, Derna, figlia di Diana, legate al muro del casolare dove abitavano gli Americani, famiglia detta de ‘l Sisano).

Tutt’attorno delle strisce di medica, dopo una piantata di ceci, fagiolini, pomodori e quant’altro che da lì a breve avrebbero richiamato in picchiata dal Sanguineto, una fitta macchia al confine col podere dei Sevieri, detti Rancobello, i numerosi Fagiani che vi avevano trovato ricovero all’Ave Maria del giorno precedente.

Appena valicata l’aurora, babbo Gennaro scioglie, seguito a ruota da suo fratello maggiore Mario, e Diana, la mezza istriana strappata la stagione precedente ad un salariato agricolo di Castel Rigone, Passignano, guadagna la cima di una imponente murcia (in italiano murgia, roccia o rilievo a tavolato, da murex, icis, murice, quindi sasso), un mucchio di sassi tolti al terreno arabile, su cui si è sviluppata vegetazione arbustiva di ogni genere e sta guardandosi attorno, com’era sua tecnica, in attesa di avventarsi sul selvatico, in punta di unghie, in guisa di ballerina, appena spostando la coda di qua e di là, mentre Brilla, una bella spinona di proprietà dello zio Mario, sta giù, sotto la murcia, sguardo di sottecchi all’insu’, anch’essa muovendo lentamente la coda, in tacita intesa colla numero uno, Diana.

Babbo Gennaro è appena davanti a me e con ampi gesti del braccio destro cerca di far invano intuire all’ininfluente zio Mario cosa stesse per avvenire, intanto che Nello Gaggiotti, un cecchino di prim’ordine, aveva allungato di un centinaio di metri, appostandosi poco oltre il pozzo, da cui i contadini attingevano acqua per uso domestico ed animale, fra uno Stucchio (in italiano, Acero, Acer campestre: antichi guardiani degli scarni prodotti dei campi, destinati a sorreggere le rade viti, che rientravano nella logica della modesta economia agraria del tempo, decimati dal sopraggiungere dei colonnini di cemento, dall’avvento delle vigne “industriali”) e l’altro, sui quali nereggiavano corposi grappoli di invitante uva, nel frattempo che dall’aia Angelino a suon di moccoli richiamava il suo pargolo, Luciano, alla prima governa e abbeverata, nonché a colmare la carretta di letame e a porre una nuova e fresca lettiera per le bestie, che già muggivano a più non posso, Lucianino, come lo appellava teneramente mamma Rosina, invece, inebetito da quella sorta di rappresentazione teatrale, di cui afferrava meno che nulla.

Un lacerante latrato, un misto di frustrazione e vogliosa rabbia di afferrare l’Orecchiona, aprono le danze.

La Lepre in un sol balzo, seguita al volo da Diana, atterra fra Brilla e babbo Gennaro, impedendogli la fucilata.

La scena è semplicemente fantastica, da film muto o quasi.

Diana e Brilla, senza un fiato, appaiate, fianco a fianco, sono ad un metro dal posteriore della Lepre.

Babbo Gennaro, conoscendo a memoria suo cugino Nello Gaggiotti, comincia ad urlargli uno stentoreo:

No, nooo, noooooo, non sparare!“.

Io, nel mio piccolo, sapendo altrettanto bene chi fosse mio zio Nello Gaggiotti, già pregustavo il finale di quella mitica cavalcata.

Ancora negli occhi le due belve scatenate, la Lepre, che, rispetto alle cagne, scomposte, coi muscoli in bella evidenza, in uno sforzo estremo, sembrasse procedere a rallentatore, zio Nello Gaggiotti imbracciante la fedele doppietta e ………….!

Un sol colpo, come d’abitudine, e l’Orecchiona si avvolse in una mortale capriola.

Non era tuttavia terminata la giravolta, che Diana e Brilla, con la bava alla bocca, si stessero dando furiosamente addosso, azzannandosi alla gola senza pietà.

Solo un energico intervento di babbo Gennaro, munito di un nodoso bambù, pose fine all’accanita disputa, che comunque lasciò sulle due contendenti diverse e profonde morsicature.

Una campagna umbra, quella degli anni ’60 del secolo scorso, caratterizzata da piccole proprietà nelle quali si coltivava di tutto, paesaggio spezzato da siepi chilometriche e filari di querce secolari a non finire, che fungevano da limes.

Poi la pazzia.

In poco tempo fatta tabula rasa di tutto ciò che impediva il rapido movimento dei trattori, consentendo al vento di seccare in un men che non si dica il minimo residuo di pioggia, di frescura, che si conservava a lungo all’ombra di quelle materne, gigantesche, piante, che avevano resistito a guerre, terremoti e calamita’ di vario genere e facilitando il precipitare a valle delle colline, che non incontravano più la resistenza delle radici ad ostacolarne l’eterna discesa.

Fiumi incattiviti che ogni tanto recupera(va)no a costi sociali insopportabili le sponde, gli alvei e i terreni alluvionali di loro, esclusiva, proprietà dall’inizio della Creazione, altro che di chi si illudeva di scamparla alla furia degli elementi naturali, seminando (e costruendo!!!!) fin sugli argini.

Stoltezza gestionale che, al fine di ridare fertilità ad un suolo viepiù derubato delle sue qualità intrinseche, grazie alla (triennale?) rotazione, richiedeva maggiori quantità di fertilizzanti.

Per non parlare dei diserbanti, pesticidi e veleni vari, che tanti cancheri, soprattutto alla vescica, hanno “regalato” agli operatori del settore.

Addetti sempre più inconsapevoli e veloci nel loro eseguire i lavori della terra, che non ti perdonano, non dico un alberello, sul loro cammino, ma neppure un filo d’erba lungo un fossato o ai piedi di una vite.

Frenetica agri-mania che divora ettari e ettari di sano verde, per far spazio a colture intensive ed estensive, destinate in primis al comparto suinicolo e bovino, distese extraterrestri inquietanti, prive di qualsivoglia infestante nel loro perimetro, sulle quali si sprecano milioni di metri cubi di preziosa acqua, che andrebbe al contrario utilizzata con parsimonia, stile Israele, con misurati impianti goccia a goccia, salvo in seguito strapparsi i capelli per la siccità, per il cambio climatico, intanto che la sunnominata nazione del Vicino Oriente da decenni ha trasformato il deserto in un Eden.

Prodottacci tipo insilato, granturco fresco, che mai una vacca mangerebbe, se potesse scegliere, triturato e posto a strati intervallati da urea in vasconi di cemento, che lo rendono particolarmente appetibile e che trasformano le mammelle di quelle povere bestie in pozzi lattiferi senza fondo, dai quali mungere fino a sessanta litri di latte al giorno, che non so quanto consigliabile.

Che dire inoltre delle farine animali (???) destinate ai maiali, appiccicati gli uni agli altri, forzati dell’ingrassaggio in tempi record?

E dei liquami sversati “distrattamente” e direttamente nei corsi d’acqua limitrofi a detti campi di concentramento e di tortura?

Insomma, non saranno querele di vario tipo ad impedirmi di scrivere ciò che ho visto perpetrare negli ultimi cinquant’anni a danno di ambiente ed animali di allevamento, destinando a noi cacciatori un non troppo metaforico, quanto smisurato cetriolone, lasciandoci infatti a disposizione, si fa per dire, soltanto coltivati da incubo o, ma questo non è alle due, citate, categorie imputabile, impenetrabili selve.

No, io non sto cogli agricoltori, meno cogli allevatori!

Leandro Raggiotti

Emiliano Zapata , Morelos, México

06 febbraio 2024